Alla gestione in forma capitalistica di produzione della ricchezza – in quella sua forma astratta che è il denaro – non frega niente dell’effettiva esistenza degli individui, e dei loro bisogni, se non a condizione che la loro esistenza sia “utile”, messa a valore, contribuisca cioè al processo di valorizzazione del capitale investito nella produzione di merci (beni o servizi che siano).
Al riguardo, è emblematica la vicenda della non sospensione dei brevetti sui vaccini, nel corso stesso di una pandemia, a favore dei guadagni dell’industria farmaceutica privata, e nonostante l’ingente partecipazione finanziaria pubblica. E, in breve, è questo ciò che si intende per gestione economico-finanziaria dell’attuale stato di crisi dell’Occidente. Che non è solo più crisi sanitaria, ma è già crisi climatica e crisi dell’assetto geopolitico del mondo.
Qual è il ruolo dei social media in questa situazione? In una situazione cioè, dove l’individualità atomizzata è la forma principale di soggettività, i social media sono davvero in grado di soddisfare il bisogno profondo di socialità, che è l’attuale forma capitalistica di riproduzione sociale della vita singola a rendere sempre più radicale? È davvero la connettività di internet, e dei dispositivi digitali che la consentono, la risposta, di fatto semplice e allettante, a quel bisogno di socialità?
Da quali contesti pratici di vita può nascere un’effettiva risposta al bisogno di «socialità diffusa», la cui gestione corrisponda ad una reale «elaborazione sociale», del collettivo – e non del potere finanziario privato – delle stesse condizioni sociali d’esistenza della vita?
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