La tesi di Filippo Barbera è che «il modello neoliberale si è mangiato lo spazio pubblico», un modello di società dove lo Stato è finalizzato a preservare i «meccanismi di accumulazione del capitale», a scapito di ogni pressione democratica nella configurazione della vita sociale. La nostra società, tra globalizzazione e svolta digitale, è segnata da un profondo processo di recessione sociale: quel che viene meno è proprio l’importanza dello spazio fisico dell’interazione per la costruzione stessa della reciprocità – di un “noi”, appunto.
Ma se lo spazio fisico che è alla radice dell’interazione faccia a faccia mediata dalla corporeità – siamo corpi in azione nello spazio – viene meno, la sua rarefazione quali conseguenze produce nella configurazione dello spazio pubblico? E, soprattutto, quali conseguenze ha nella costruzione di un “noi”, inteso come intenzionalità collettiva, orientata a realizzare uno stato futuro del mondo più giusto?
Nella realtà a più livelli dello spazio pubblico – dalla banalità della vita quotidiana agli spazi intermedi dell’elaborazione politica e agli spazi dei luoghi di vita – il modello neoliberale di società è un modello privo di futuro, che non ammette una discontinuità radicale con il presente. In mancanza di una “promessa di futuro”, dell’“impegno” cioè verso una progettualità comune, per «soddisfare non solo un bisogno materiale per mema anche una soluzione collettiva connessa a un’idea di giustizia sociale per noi», come è possibile “abilitare” la realizzazione di un “noi”?
Ma di un “noi” il cui senso di appartenenza, radicato nei luoghi di vita, costitutivo della nostra esistenza, non si risolva nella chiusura rispetto all’“altro”, ma in un potenziale «intreccio di radici», e cioè nella realizzazione di quello che la filosofia politica chiama «cosmopolitismo radicato o parziale», aperto a una soluzione collettiva dei problemi urgenti della società attuale.
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