La fragilità dell’altro ci interroga. A che cosa affidare la nostra capacità di rispondere alla patologia dell’altro, alla sua vulnerabilità? Basta affidarsi alla terapia del pharmakon? Una soluzione tecnica, che, in primo luogo, è garanzia della sopravvivenza, della conservazione della vita – come “zoé” – la nuda vita animale, naturale. O è necessario affidarci alla cura? Cura dell’altro che comporta una “pratica”, l’impegno attivo, concreto ed esistenziale del «prendersi cura» e, quindi, richiede anzitutto, una «dietetica», un’arte della cura di sé.
La fragilità in cui ci si riconosce richiede una trasformazione di sé – la costruzione di un soggetto che si sa “in relazione”, responsabile e solidale, di un “soggetto relazionale” che si riconosce nella co–esistenza della vita, come bìos, nella fondamentale interdipendenza di tutti in un’unica e plurale umanità.
Forse, questa qualità emergente di una capacità empatica della società, dell’essere in relazione all’altro, è già percepibile – e, a sorpresa, è la tecnologia dei nuovi media a renderla possibile.
(3, continua)