A teatro quel che accade in scena è un laboratorio esistenziale. Il teatro consiste appunto in ciò che «manifesta la “presenza in transito” sulla scena degli attori», un tempo e uno spazio in cui «si consuma un’esperienza di vita… nella parte dell’attore».
Il teatro come «esperienza di vita», un’esperienza extra-ordinaria rispetto alla vita quotidiana, è ciò in cui consiste il potenziale politico dell’arte teatrale, è la sua “differenza”, da perseguire.
Quel che conta di più, per Antonio Attisani, è «l’incidente esistenziale di quel che sta in scena», un apprendimento che funziona in base all’«ascolto» – un’esperienza dell’alterità; è un «lasciare entrare quel che viene dall’altro» dentro il proprio sistema di vita. Per questo, e non per un suo «progetto di significazione» (di intenzioni, di idee), il teatro è conoscenza, un’espansione del proprio repertorio comportamentale, che accresce la capacità di governare il processo della vita quotidiana.
Ma il teatro, quel che va in scena, senza l’osceno – quel che sta fuori dalla scena, la vita tutta – cosa sarebbe?
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