Fino a che punto cedere alla propria viltà – compiere un atto che è contrario alla propria dignità – è un atto che appartiene all’umana imperfezione? Una debolezza accettabile? La situazione del colloquio di lavoro è esemplare della permanente presenza della viltà nella vita pratica: a fronte di una domanda che viola la riservatezza dei dati personali, lo stato di necessità – una condizione non facilmente aggirabile – del dover lavorare per vivere obbliga al compromesso, ad assecondarne la richiesta. È la banalità della viltà.
Quanto fino in fondo si è allora liberi di scegliere? La necessità di una carriera lavorativa è anche il tema che percorre la testimonianza di Adolf Eichmann a giustificazione del suo ruolo nel crimine storico della “soluzione finale” nella Germania nazista. Dove sta la differenza? Per Peppino Ortoleva, sta nella “gravità” delle conseguenze, nella compromissione di valori umani importanti: a cominciare dal provocare danno alla vita altrui, e rinunciare così alla propria stessa dignità. Che è una rinuncia alla propria umanità, e non solo a quella dell’altro.
Ma come il valore di sé che un individuo si attribuisce – un azzardo narcisistico – può essere preso a misura per definire che cos’è la dignità umana? In ogni caso, essere contro la viltà, per Peppino Ortoleva, non significa combattere per fare migliore il mondo, ma di certo per rendere migliori noi stessi. Ma su che cosa misurare il “miglioramento” di quella umanità che dà senso a una comune somiglianza?
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