La transizione ecologica è, per Emanuele Leonardi, soggetta a una “temporalità paradossale”. A partire dal 2019, da una parte, si può dire che “non c’è più tempo”, perché l’architettura istituzionale del governo globale del clima (dalla conferenza di Rio di Janeiro del 1992 al Protocollo di Kyoto del 1997 fino all’Accordo di Parigi del 2015) – una transizione dall’alto – è risultata fallimentare; dall’altra, si può dire che “siamo ancora in tempo”, perché a partire dalle piazze – una transizione dal basso – si è verificata un cambiamento di registro nella posizione del problema della crisi climatica.
A fare la differenza è il tema della “giustizia climatica”, che segna un punto di discontinuità nella gestione del processo di transizione ecologica, sia in termini di adattamento ambientale, che di mitigazione, di riduzione delle emissioni di CO2-equivalente, e inaugura un nuovo attivismo climatico. Quindi, nella percezione collettiva, immaginario catastrofista e pratiche di attivismo politico di critica delle diseguaglianze sociali convivono di fronte all’urgenza del problema della crisi climatica.
Ma che cos’è la giustizia climatica? E perché è importante sottolineare la discontinuità che questo tema introduce nella gestione del governo globale del clima? È la risposta al crescente divario nella distribuzione della ricchezza a livello globale, e al conseguente impatto dei modelli di consumo e di stili di vita dei super-ricchi sui livelli di emissione inquinanti sul pianeta, o, in altri termini, al fatto che i ricchi inquinano notevolmente di più che i poveri. L’incidenza del cambiamento climatico tra le diverse fasce di popolazione del mondo è semplicemente iniqua.
(1, continua)