L’essere umano, macchina neurobiologica? Una macchina, per le scienze del cervello, la cui osservazione restituisce l’individuo alla complessità del reale, e per cui la frattura tra corpo e mente vale soltanto come un inutile residuo linguistico della tradizione culturale dell’Occidente.
È una definizione che, per Camilla Carbone, rinvia al fatto che la malattia – come il decadimento cognitivo, nelle sue molteplici manifestazioni – è sempre una ‘verità’ singolare: il «funzionamento» della macchina si riferisce sempre all’individuo nella sua storia, un individuo che si compone di molteplici variabili, biologiche, emotive, personali, e che nell’imparare a costruire uno spazio fisico, un ambiente, già da sempre sociale e culturale, ne viene a sua volta costruito.
Ma, davvero, oggi la pratica medica, l’arte della guarigione, è all’altezza di tale immagine dell’essere umano? Come sapere di un osservatore che partecipa alla costruzione del suo stesso oggetto di osservazione?
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