La parola “morale” è una parola sfuggente. In epoca moderna la moralità – nella cui rappresentazione viene meno il ricorso a un fondamento assoluto o religioso dei valori – è diventata una questione relativa alla soggettività dell’individuo, alla sua autonomia. È, in questa prospettiva, ancora possibile una morale, per cui un individuo è in grado di riconoscere il bene o il male, senza che sia al tempo stesso arbitraria, a rischio di un pieno relativismo etico?
Per Peppino Ortoleva, è possibile. A condizione di affermare una «morale che parta dalla contraddizione – e non dai principi»: contraddizione che abita l’essere umano, soggetto a quella tensione tra credenza nei valori e la loro messa in atto concreta, di cui la viltà è espressione.
Qual è infatti il segreto della viltà? Il suo segreto sta nel fatto di «essere un disvalore, un male che tutti consideriamo spregevole in relazione al fatto che contrasta con noi stessi», e fa emergere una contraddizione profonda che si può sentire fra sé e sé stessi, un venir meno alla propria personale dignità. Un’esperienza del male che non è di per sé rilevabile solo in relazione alle sue conseguenze nella vita pratica.
Il che significa affermare che esiste «una capacità dentro di noi di giudicare un male e un bene […] a partire dalla nostra esperienza, da un lato, e da alcuni principi che sentiamo profondamenti nostri, dall’altro». A partire da questa “discrepanza”, che attraversa il “vissuto”, è forse possibile porre il problema di una “misura comune” per un’etica utile alla convivenza umana?
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