Come scrive Søren Kierkegaard, in Contro la viltà, «chiunque si sforzi di conoscere davvero sé stesso dovrà ammettere di essersi non di rado colto a mostrarsi codardo». La viltà, dunque, come “male comune”, peraltro di difficile definizione, perché chiama in causa profondamente il vivere quotidiano, la vita interiore come la vita collettiva.
È davvero possibile studiare l’umanità, la pratica di una comune umanità e le sue trasformazioni, la sua storicità, senza indagarne il lato oscuro che attraversa tutta la nostra convivenza? Ma forse ne vale la pena, «soprattutto perché fa emergere una contraddizione che riguarda tutti, tra la bassezza in cui possiamo scendere e i valori in cui pure dichiariamo di credere». «Il punto di fondo è “cedimento”, la viltà è un comportamento che mette la persona in contraddizione con sé stessa».
In cosa consiste il “vizio” della viltà, della vigliaccheria? La “scena” cui relegare la viltà è solo quella guerriera del “combattimento”? È la codardia in contrasto con la virtù del coraggio in guerra? O esiste in altri scenari della vita, in pace e in definitiva in tutte le situazioni dell’esistenza? La viltà è riducibile all’emozione della paura, quale causa del cedimento, del comportamento vile? E infine la viltà ci condanna alla nostra bassezza? O, dalla viltà, insomma se ne può uscire?
Della viltà, di quella “tensione” che fa parte del sentire della nostra vita, occorre dunque parlare. E per farlo, Peppino Ortoleva ci invita ad analizzare alcuni episodi di vita di personaggi “esemplari”, tratti dalla finzione narrativa (Tersite nell’Iliade di Omero, Pietro nei Vangeli, Palla di sego nell’omonimo racconto di Guy de Maupassant) e dalla storiografia (il soldato Eddie Slovik).
(1, continua)