Di che è fatto l’incontro con l’altro o gli altri?
La parola non basta per saperlo davvero. Se diciamo che è una relazione affettiva, che la si definisca d’amore tra amici, tra amanti o che altro poco importa, c’è sempre il rischio che la parola che ci presenta (anzi ci ri-presenta) esplicitamente l’immagine, il senso di quella relazione, in realtà, si sostituisca all’esperienza effettiva dell’incontro con l’altro.
Il rischio è di perdere di vista la cosa stessa, l’esperienza che davvero è in gioco. E alla fine potremmo accorgerci che il nome per certe relazioni intime, magari fornite dalla lettura o dalla visione di narrazioni d’amore, può portaci a una rappresentazione fuorviante della realtà; e a ritrovarci, come in Madame Bovary di Gustave Flaubert, a dover combattere con la “finzione” dell’amore come contro mulini a vento immaginari cui, già per tempo, il Don Quixote di Miguel de Cervantes ci ha messo in guardia.
Prima di sposarsi, Emma aveva creduto di essere innamorata, ma la felicità che sarebbe dovuta nascere da questo amore non esisteva, ed ella pensava ormai di essersi sbagliata. Cercava ora di capire che cosa volessero dire realmente le parole felicità, passione, ebbrezza, che le erano sembrate così belle nei libri.
Intanto, seguendo le teorie nelle quali credeva, ella cercò di crearsi l’amore. In giardino, al chiaro di luna, recitava tutte le rime amorose che sapeva a memoria e sospirava romanze malinconiche, ma non sentiva agitarsi dentro di sé nessuna passione.
(da Gustave Flaubert, Madame Bovary)
Quindi la differenza tra l’esperienza che è in gioco, la “realtà”, e la sua espressione simbolica (anche se per parte sua il nome, la rappresentazione simbolica, costituisce un altro livello di realtà), e cioè tra verità e finzione, è una differenza, a volte inconciliabile, che non può essere liquidata così semplicemente.
Ma è davvero possibile, come preferisce Francesco, superare il bisogno di definire un’emozione, una relazione affettiva? E lasciare quindi che l’esperienza dell’emozione si esprima in sé stessa senza un nome?
O questo fare a meno di rappresentarsi, di esprimersi attraverso la parola, non sottende a sua volta un modo di affermare, in termini di desiderio di essere o di avere, un’emozione riguardo a sé stessi rispetto agli altri?
Possiamo davvero allora farne a meno?
Non avevano niente altro da dirsi? I loro occhi erano tuttavia pieni di una conversazione più seria; e, mentre si sforzavano di trovare delle frasi banali, sentivano uno stesso languore invaderli tutti e due; era come un mormorio dell’anima, profondo, continuo che dominava quello delle voci. Sorpresi di stupore da questa soavità nuova, non si preoccupavano di raccontarsi la sensazione o di scoprirne la causa.
(da Gustave Flaubert, Madame Bovary)
E quando la parola sembra in difetto?
Si era sentito dire tante volte tutte queste cose che ormai non avevano per lui più niente di originale. Emma non era diversa dalle altre amanti, e il fascino della novità, cadendo a poco a poco come un abito, metteva a nudo l’eterna monotonia della passione, che ha sempre le stesse forme e lo stesso linguaggio. Rodolphe non distingueva, da uomo pieno di senso pratico, la differenza dei sentimenti celata dall’identità di espressione. […] È necessario, pensava, ridimensionare i discorsi esagerati che spesso nascondono sentimenti mediocri: come se talora la passione eccessiva non traboccasse dall’anima servendosi delle più vuote metafore, perché nessuno, mai, può dare l’esatta misura delle proprie necessità, delle proprie concezioni, o dei propri dolori, dato che la parola umana è simile a un calderone incrinato da cui è facile trarre una musica adatta per far ballare gli orsi quando vorremmo commuovere le stelle.
(da Gustave Flaubert, Madame Bovary)
Quand’è così, è davvero possibile vivere l’immediatezza dell’emozione senza l’interferenza della parola? Una cosa si può dire, almeno: che questa insufficienza della parola mostra la difficoltà di dare espressione a quegli stati corporei che sono le nostre emozioni.
(2, continua)