È indubbio che la diffusione delle tecnologie digitali delle piattaforme social, da FaceBook a Tinder, rispondano a una domanda basata sul bisogno, sulla passione, sul desiderio di socialità, e anche di intimità, e che la mediazione tecnologica di questa domanda genera a sua volta un nuovo spazio di fruizione della socialità.
È una nuova modalità di relazione dell’individuo con sé stesso? Una modalità in base a cui la natura espressiva e creativa dell’esistenza di tutti, divenuta accessibile a una generale godimento, è al tempo stesso il prodotto sociale della partecipazione di tutti? È davvero finalmente la generazione di quella ricchezza reale che consiste nel riconoscimento dell’universalità dei bisogni e dei desideri, nell’estrinsecazione delle capacità creative degli individui?
Ma la produzione di questa generale relazionalità degli individui non è a sua volta influenzata dalla natura, dal tipo di mediazione esercitata, spesso solo in funzione di investimento capitalistico, dalle piattaforme social? Che appunto procede per così dire alle loro spalle, come mezzo per mettere a valore la loro esistenza?
Forse non è un caso che il modello di emancipazione da social – la monetizzazione delle vite nell’appagamento narcisistico della propria immagine sociale – continui a consistere in una “brama di arricchimento”, a generare l’impulso collettivo a “giocare” ad appropriarsi del denaro, il “rappresentante universale” della ricchezza materiale. Che proprio per questo è in grado di esercitare un potere “senza misura” sulla vita di tutti.
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