Le parole per dire le emozioni, così gravide di conseguenze per la nostra vita, da dove provengono?
Certo le parole che definiscono le emozioni, semplici o complesse che siano, come piacere o dolore, sorpresa o rabbia, amore o odio, sono una ri-presentazione in forma simbolica di disposizioni corporee che ci inducono all’azione, a un modo d’essere e di stare al mondo. Sono parole che hanno una storia culturale, individuale e collettiva, una storia che modella, attraverso l’educazione, la percezione che ne abbiamo e, soprattutto, ne legittima l’espressione.
Che cosa quelle parole vogliano dire realmente è ancora sempre il dilemma di Emma in Madame Bovary: le parole, come «felicità, passione, ebbrezza, che le erano sembrate così belle nei libri», stanno forse nella testa, o magari da qualche altra parte nel corpo, o in qualche teoria da mandare a memoria, così forti da farci sospirare, da sperare di sentirle agitarsi dentro di noi?
C’è come una tirannia del nome nel dire l’emozione. Che, se pure non sia la cosa stessa ma solo la sua rappresentazione, ci impedisce di ritrovare quel flusso dell’esperienza senza che non sia già catturato da un nome che ne ritaglia, e più spesso ne legittima, le possibilità effettive? Il rischio è di vedere e vivere solo quello che il nome definisce, che, in senso proprio, ne limita la comprensione. Il suo significato, quasi fosse dotato di sostanza propria, più che rinviare alla spontaneità del vivere, rimanda all’educazione, alla dimensione culturale che ne modella l’effettiva espressione.
Quanto sono variabili, ad esempio, le emozioni che governano le pratiche del corpo, o parti di esso, a seconda del processo educativo che governa la nostra crescita in base ai valori culturali del nostro contesto storico e sociale di appartenenza? Per quel che riguarda l’Occidente, basta ricordare la millenaria svalutazione del piacere del corpo nella tradizione letteraria della sua cultura. La dilagante pornografia di massa, non ne rappresenta certo un superamento reale.
Insomma, alla fine, è facile immaginare che le emozioni stiano nella nostra testa, o in qualche parte del corpo, quando non nella grammatica dei libri, di poesia o di narrativa. Sono quella serie di stati affettivi, sentimenti, desideri e aspettative che stanno sotto pelle, nel senso letterale del temine, cioè che ritroviamo nel corpo come vissuti corporei di eccitazione o di inibizione, e anche di sofferenza, di patimenti del corpo. Ma non è da lì che le emozioni provengono. Come per il linguaggio, le emozioni appartengono allo spazio di esistenza effettiva nel quale il nostro corpo si muove, in un continuo e ricorrente intreccio di relazioni, più o meno consensuale, con il corpo degli altri. E non per queste sono più vere o più false. Sono quello che sono. E sono così da quando abbiamo cominciato ad assaporare le carezze o, se si è stati sfortunati, ad assaggiare le sculacciate di un genitore – esperienze di contatto per le quali l’impiego di metafore alimentari non è affatto casuale. Le emozioni, associate a quelle esperienze, sono il substrato incorporato, per così dire, archeologico di quelle interazioni che, nel tempo, ci costituiscono in ciò che siamo.
Il problema delle emozioni è sapere se davvero siano là dove esse prendono vita. Perché la coscienza che ne abbiamo, come Diego Iracà ci invita a osservare, non sempre coincide con ciò che sentiamo e proviamo nel corpo o con ciò che facciamo e mostriamo con il corpo o, ancora, con ciò che enunciamo e dichiariamo nel dare voce al corpo. Il rischio è rimanere come dislocati altrove, estranei a sé stessi. Imparare qualcosa dall’esperienza del proprio sentire corporeo, sviluppare cioè una coscienza embodied, una coscienza incorporata o corporeizzata, significa riconoscere anzitutto che non sempre le dimensioni espressive del vivere sono tra loro allineate, coincidenti; e che quindi la ricerca di una qualsiasi risonanza, un qualsiasi rapporto intimo, entro cui dare e avere un riconoscimento di sé, rischia davvero ogni volta di esporsi a un senso di fallimento.
Significa riconoscere poi che ogni emozione è sì un modo riflessivo di espressione del corpo, ma che non sta “dentro” al corpo come un’entità a sé stante, sta invece “fuori”, nello spazio di esistenza di rapporti intercorporei, nell’interdipendenza di un corpo dal corpo degli altri; e che ciò che in gioco è più spesso la congruenza o meno, la consensualità o la conflittualità con cui si costruisce questo spazio di condivisione.
Significa riconoscere infine che questo stesso spazio di socialità è anche lo spazio effettivo della nostra cura, del prendersi cura di sé.
Ma perché facciamo fatica a riconoscere questa disposizione alla convivenza sensuale della nostra vita?
A questo proposito mi viene in mente ora un passo delle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. È un po’ lungo. È una riflessione magistrale sul tema del valore emozionale della conoscenza di sé e dell’altro, appunto nel contatto:
A volte, ho sognato di elaborare un sistema di conoscenza umana basato sull’EROTICA: una teoria del contatto, nella quale il mistero e la dignità altrui consisterebbero appunto nell’offrire al nostro IO questo punto di riferimento d’un mondo diverso. In questa filosofia, la voluttà rappresenterebbe una forma più completa, ma anche più caratterizzata dei contatti con l’ALTRO, una tecnica in più messa al servizio della conoscenza del non IO. Anche nei rapporti più alieni dai sensi, l’emozione sorge o si attua proprio nel contatto: la mano ripugnante di quella vecchia che mi sottopone una supplica, la fronte madida di mio padre nei suoi ultimi istanti, la piaga detersa di un ferito, persino i rapporti più intellettuali o più anodini si istituiscono attraverso questo sistema di segnali del corpo: il lampo d’intesa che illumina lo sguardo del tribune al quale si spieghi una manovra prima della battaglia, il saluto impersonale d’un subalterno che al nostro passaggio s’immobilizza in un atteggiamento di obbedienza, lo sguardo amichevole d’uno schiavo che ringrazio per avermi portato un vassoio, l’espressione da intenditore d’un vecchio amico davanti al dono d’un cammeo greco. Con la maggior parte degli esseri umani, i più lievi, i più superficiali di questi contatti bastano, o persino superano l’attesa; ma se essi si ripetono, si moltiplicano attorno a un unico essere sino ad avvolgerlo interamente; se ogni particella d’un corpo umano si impregna per noi di tanti significati conturbanti quante sono le fattezze del suo volto; se un essere solo, anziché ispirarci tutt’al più irritazione, piacere o noia, ci insegue come una musica e ci tormenta come un problema, se trascorre dagli estremi confini al centro del nostro universo, e infine ci diviene più indispensabile che noi stessi, ecco verificarsi il prodigio sorprendente, nel quale ravviso ben più uno sconfinamento dello spirito nella carne che un mero divertimento di quest’ultima.
Opinioni come queste sull’amore possono indurre a una carriera di seduttore. Se non l’ho seguita, senza dubbio dipende dal fatto che mi son dedicato a cose diverse, se non migliori. Una carriera del genere, in mancanza d’estro, richiede una serie di attenzioni, persino di stratagemmi, per i quali non mi sentivo portato. Tendere insidie sempre eguali, percorrere la solita strada, che si limita a perpetui approcci, e alla quale la conquista segna il traguardo, son cose che mi hanno tediato. La tecnica del vero seduttore esige, nel passaggio da un soggetto a un altro, una disinvoltura, un’indifferenza che io non provo e che, comunque perdevo prima di abbandonarle intenzionalmente: non ho mai compreso come si possa essere sazio di un essere umano. La molteplicità delle conquiste contrasta con il desiderio di enumerare esattamente le ricchezze che ogni nuovo amore ci reca, di osservarlo mentre si trasforma; fors’anche, mentre invecchia.
(da Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano)