Ma ci sta davvero a cuore la nostra vita sociale? Perché, in effetti, la macchina economica che attanaglia la riproduzione complessiva della vita sociale – stretta com’è tra l’imminenza della catastrofe ecologica e la diffusa precarietà delle condizioni materiali dell’esistenza – è di una tale violenza, di una tale dismisura che il singolo individuo, nel tentativo di guadagnare un posto in questo mondo, finisce per “perdere l’anima”, quell’anima collettiva che fa(ceva) della speranza di dare forma a nuove regole della convivenza la misura di un progetto politico.
Cos’è che impedisce di “scendere in piazza”, di mobilitare le energie individuali per “cambiare il mondo”? Il grande mutamento di scala generato dalla tecnologia digitale che, con l’entrata del linguaggio simbolico fin dentro la sfera della produzione, è ormai l’interfaccia permanente tra l’intera esistenza di un individuo e i vari mondi della sua vita sociale, sembra produrre effetti paradossali – e proprio su questioni di rilevanza politica, ad ascoltare i giovani presenti a tavola.
Qual è infatti l’incidenza della tecnologia digitale, sussunta a un uso capitalistico (quello delle grandi piattaforme), sull’esperienza del “sentirsi insieme”, sulla modalità della convivenza? Qual è l’impatto sulla vita psichica e la condotta dell’esistenza individuale di quel senso di pervasiva socialità – la connettività, la visibilità mediatica –, che sembra invece rovesciarsi nella promozione individualista di sé, nel “marketing del sé” e nella ricerca della performance, della prestazione competitiva?
Ha ragione Valeria Palumbo, il problema è il “collante da trovare”, il “problema comune che unisce”. Anzi, di comune, al momento, sembra esserci solo la disconnessione, il venir meno del riferimento alla realtà materiale dello sfruttamento del lavoro e dell’estrazione di valore, la produzione di ricchezza economica, sulla base della sua esistenza. L’attuale “messa in discussione” dell’esistente, mentre tende ad attribuire un’impronta politica ad ogni aspetto della vita e della cultura, finisce per accettare, di fatto, la totale perdita di senso sociale e politico, quasi fosse un habitat naturale, di quel rapporto – fondamentale per guadagnarsi da vivere – che è alla base della riproduzione capitalistica della società. È la questione del lavoro salariato, come garanzia minima per la sopravvivenza – se non lavori (a quella condizione) non mangi.
La radicalità politica di alcune mobilitazioni – come quelle per l’affermazione delle “identità”, privilegiate o subalterne, poco importa – la cui ricerca di legittimazione è in prevalenza di tipo simbolico, etico-culturale, non sembra implicare più una richiesta di trasformazione materiale del sistema economico. Alla richiesta rivoluzionaria degli anni ’70 di «sganciare» l’attività lavorativa collettiva, e la vita comune stessa, dalla sua “messa a valore” capitalistica, si è sostituita la richiesta gratificante della visibilità sociale, il riconoscimento simbolico della vita individuale.
Come allora ridisegnare lo spazio politico di ciò che è possibile in fatto di riproduzione della società? Gianfranco Pancino invita a guardare alle lotte territoriali dei movimenti politici per la giustizia ecologica.
(6, continua)