Che ne è di quel senso – che fu il ’68 – per il quale “cambiare il mondo” sta nella possibilità di un fare collettivo?
La viralità patogena di SARS-CoV-2 continua a segnare la gestione quotidiana della nostra individualità, e secondo una piega paradossale. L’esistenza individuale, emersa dal suo isolamento corporeo, sembra reclamare spazi di una socialità perduta; e, tuttavia, nel dislocarsi in una realtà virtuale, mediata dai dispositivi della tecnologia digitale, sembra potersi reinventare, anche nella sua dimensione lavorativa, in un sistema di condivisione intelligente, di mobilitazione di competenze cognitive, comunicative e sociali, basate proprio su un libero coinvolgimento soggettivo.
Il protocollo di emergenza dell’«isolamento», un esperimento sociale inedito per la sua dimensione globale, sembra però aver dato corpo a una diffusa immaginazione con cui si fa riferimento quando si parla dell’individualità di un essere umano: della sua esistenza come di qualcosa di a sé stante, che può esistere indipendentemente dal suo contesto relazionale, dalla tessitura continua di una rete sociale.
Se però si parte da questa immagine dell’individualità – dell’individuo isolato – che persegue l’obiettivo di massimizzare la soddisfazione del suo «interesse privato», come è possibile comprendere il senso dell’intreccio che tiene insieme individuo e società?
(6, fine)