Uscire dal neurocapitalismo: come convivere con il non-sapere come andrà a finire?
A inizio febbraio, a tavola Giorgio Griziotti, nel suo discorso (qui in sintesi) sulla crisi della società nell’attuale fase del capitalismo, poneva una questione radicale: siamo di fronte a una biforcazione della storia – o la rivoluzione globale o la catastrofe e, se non la catastrofe, una gestione totalitaria del potere (un nuovo fascismo). Non era una profezia, ma l’esito di un’analisi dell’attuale instabilità dell’economia, a dominio finanziario, del sistema-mondo capitalistico, fatta anche in riferimento proprio alla circostanza di un eventuale disastro come una pandemia, cui si fece cenno – in quel momento il Covid-19 sembrava ancora solo una realtà relegata in Cina.
Di lì a poco, la catastrofe è diventata cronaca, e il senso di una rottura nel tempo della storia è diventata l’insistente espressione di un immaginario collettivo: nulla sarà, o potrà essere, più come prima; un’espressione che sembra dare un senso a una calamità in cui ne va del nostro vivere e del nostro morire. Una rottura necessaria, ma forse non sufficiente, per il nostro “apprendistato” a vivere, per imparare a riflettere, come ci obbliga l’origine e la propagazione del contagio del virus, sull’intreccio di rete della vita, quale condizione della vita tutta.
Siamo in presenza di una pandemia, che non è la rivoluzione, e forse neanche una catastrofe. E tuttavia presenta forse un punto di rottura, o almeno di interruzione, della “normalità” che ha il potere di mettere in gioco, in un tempo in apparenza sospeso, la regolarità del mondo. Ha il potere di mettere in discussione i sistemi di riferimento usuali con cui tentiamo di osservare le dinamiche di fondo che presiedono al «ricambio materiale e spirituale» con la natura; ha il potere di mettere in discussione il sistema di idee che collegano la nostra vita materiale alla complessa rete della vita del mondo, entro cui prende forma la nostra convivenza.
C’è allora un preliminare problema che la traccia del virus fa emergere: come possiamo, se vogliamo avere una comprensione del mondo e immaginarne un futuro, fare affermazioni relative alla realtà senza farci carico di come ci stiamo, del modo cioè della nostra convivenza? È una domanda che ci coinvolge in una personale responsabilità politica.
(6, fine)